domenica 9 marzo 2014

NON VOGLIAMO UNA GUERRA CIVILE........

di Barbara Stefanelli da La27esima ora




Non vogliamo una guerra civile tra i generi. Non la vogliamo oggi, che è l’8 marzo per un’inedita coincidenza tra calendari festivi e agende parlamentari, e non la vogliamo per i prossimi 364 giorni. Usciamo dunque subito da ogni contrapposizione ideologica e proviamo a farci una domanda semplice: la parità uomo-donna alla Camera, prevista da alcuni emendamenti alla legge elettorale, è una forzatura inaccettabile o potrebbe rivelarsi una spinta per l’Italia?
Noi non abbiamo dubbi. La qualità futura della nostra democrazia — e del nostro vivere insieme — passa da una partecipazione attiva delle donne alla vita pubblica. Perché non è solo questione di principi e diritti. Ma di scelte e comportamenti: quelle «buone pratiche» che migliorano la società.
Partiamo da qui.
E dalla considerazione che, oltre all’articolo 3 contro ogni discriminazione, la Costituzione con l’articolo 51 sollecita «appositi provvedimenti» per promuovere pari opportunità nelle assemblee elettive. Non esiste una traduzione automatica, univoca, di questa indicazione che tuttavia ha carattere precettivo. La proposta — avanzata da un fronte di parlamentari (soprattutto donne, ma non solo) indipendenti da partiti o gruppi — è di stabilire un’alternanza di genere nella composizione delle liste e di dividere a metà i posti di capolista.
L’obiezione è quella del merito: Thatcher e Merkel non hanno avuto bisogno di quote. È la stessa che venne sollevata quando si discusse di quelle norme che dal 2012 impongono un graduale aumento delle donne ai vertici delle società quotate in Borsa. Vediamo allora come è andata nelle aziende che hanno applicato la legge Golfo-Mosca. Una legge — vale la pena ricordarlo — destinata a restare in vigore fino al 2022. Il tempo di attivare un circuito, diretto e indiretto, di equità.
Il primo effetto, naturalmente, è stato quantitativo. Siamo passati dal 6 al 18%. Cerchiamo però di capire se c’è stato un balzo anche qualitativo per le imprese coinvolte. Studi dell’università Bocconi, che fa un monitoraggio costante, dimostrano che nelle posizioni di leadership è scesa l’età media e si è alzato il livello di competenza. In generale, nelle aree aziendali dove più forte è la diversità — la famosa diversity — i risultati sono migliori. Cosa è successo? Che l’aumento di trasparenza e competizione nella selezione ha innescato meccanismi virtuosi: non solo per le donne.
Ma la politica, si dice, è un’altra storia… Davvero è così? Nel 1993 passò una legge, poi abrogata, che stabiliva una rappresentanza di genere «non inferiore a un terzo degli eletti». Si fece in tempo a votare in alcuni Comuni. Il risultato — facile da confrontare con altre città — è che quel terzo obbligatorio mise in moto un ripensamento della classe dirigente locale: più investimenti nel sociale e nei servizi; meno corruzione.
La verità è che buone leggi si rivelano sempre buone medicine. Vanno assunte quando il sistema — il corpo democratico, in questo caso — ne ha bisogno. Se fossimo in Finlandia, dove le donne in Parlamento sfiorano il 45%, non cercheremmo rimedi. Ma siamo in Italia e non ce la passiamo bene quanto a divari di genere (restiamo 71esimi su 134 Paesi analizzati). L’Italia è il Paese dove meno di una donna su due ha un lavoro retribuito e l’indice di fertilità è tra i più bassi d’Europa. Questi due dati da soli raccontano che qualcosa deve cambiare. Serve una cura, per tutti.

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